Questa riflessione nasce dall’idea di cominciare ad esporre il nostro modo di vedere le cose per come le avremmo fatte noi anche se stanno prendendo altre strade. Per capire nel tempo se le avremmo fatte bene, male o meglio, in ogni caso con una visione differente, per un confronto che possa maturare progetti condivisi e non imposti, che tenga conto di necessità spesso ignorate e che possa produrre nuove idee, non praticabili a giochi fatti, ma in futuro, quando i giochi si ripresenteranno.
Per non dover più sentirci dire “hanno detto che fanno”.
Era tanto che ci pensavo al vecchio mercato coperto dí Santo Stefano, o Mercato Comunale, come amava farsi chiamare.
Ci andavo ormai 60 anni fa con nonno Luigi a far la spesa per la giornata.
Ad ogni bancarella e dopo i convenevoli di rito, venivano snocciolati i desiderata che finivano in una borsa e il riporto del dovuto registrato – segno Dottore ? – sul quaderno della fiducia da onorare puntualmente a fine mese, come al solito.
Atto finale l’imposizione della mano del nonno sul mio capo, per la presentazione del timido nipote e i complimenti del fornitore di turno, sempre difficili da digerire a quell’età.
Gli acquisti li avrei visti dopo, da vicino e nella dose giusta per non buttare nulla, sul tavolo di cucina quando nonna Pinina cominciava a svolgere i pacchetti, perché al mercato le bancarelle erano ancora troppo alte per me.
Questo era il Mercato. Scuola di confidenza, conoscenza, fiducia, rispetto. E’ partecipazione.
Poi la mia lunga assenza da Ferrara e quando con la famiglia tornammo il mercato era già caduto in disuso, travolto dalla grande distribuzione che avanzava. Abbandonato. Anche un vano tentativo di rilancio non riuscì a risollevarlo. Era arrivata la STANDA. Il libero servizio. Le cassiere. Lo scontrino e la riscossione immediata. Prendere o lasciare. Oneri da saldare subito contro onori da salvaguardare.
Scuola di convenienza, persuasione, fidelizzazione, sostituzione. E’ consumo.
Ho visto tanti mercati coperti (alcuni morire e rinascere); quelli delle grandi città: Genova Bologna e Ravenna, Barcellona Berlino e Parigi e Torino. Madrid e Amburgo – al FishMarkt*, con aringhe appena pescate e con tanto di band rock&blues alle 7 di mattina in una domenica d’inverno – chi se lo dimentica? – ; quelli di infiniti centri minori, di cui non faccio elenco per non fare eco ad Umberto Eco.
Chi più orientato all’acchiappaturista mordi e fuggi, chi più verso un servizio di vicinato, socializzazione e condivisione da mordi sul posto e guai se te ne avanza e giù chiacchiere.
Uffici turistici i primi, dimmi chi sei e da dove vieni i secondi.
Cose da prendere contro cose da dire. Souvenir contro confessionali.
Delle cose da prendere rimane poco: anche i sapori se ne vanno, dissolti nella nuova aria.
Delle cose da dire rimane molto: nelle mani che si incrociano, che si toccano, che si lasciano e che vanno.
E occhi, tanti occhi che salutano, si assolvono e ringraziano. Umanità in cambio di umanità: baratto senza merci, mercato di sentimenti, tutti un po’ diversi, dentro tanto uguali.
Il Mercato Coperto è uno di quei luoghi che non stanno solo nello spazio, ma anche nel tempo.
È architettura, certo, ma anche ricordo, racconto, promessa, rappresentazione quotidiana.
E oggi, finalmente, ma forse ormai tardi, torna al centro del dibattito pubblico con progetti, visioni, render digitali e parole come “rigenerazione”, “hub”, “vocazione commerciale”.
È un bene che se ne parli, era tanto che ci pensavo sul quando e come lo avrebbero ristrutturato.
Ma è anche un bene fermarsi a immaginare di più.
La proposta attualmente in campo – firmata da uno studio di rilievo, sostenuta dall’Amministrazione con il concorso di fondi pubblici e privati – punta a fare del Mercato Coperto un contenitore multifunzionale, aperto al commercio, alla ristorazione, al co-working.
“Lo scrigno delle tipicità”, lo hanno chiamato. La forma architettonica effettivamente corrisponde alla promessa: una specie di astuccio per gioielli.
Uno spazio elegante, razionale, rinnovato: pensato per attrarre, per generare movimento economico, per restituire vitalità al centro.
È una visione legittima, concreta. Ma anche, in parte, prevedibile.
Perché tutto ciò che ruota attorno al cibo gourmet, alla vendita, all’intrattenimento esperienziale a pagamento, per quanto ben progettato, rischia di replicare un modello già visto e che riconosciamo ad esempio nel Mercato Centrale di San Lorenzo a Firenze: un tempo cuore popolare, oggi palcoscenico per ristoratori stellati e flussi turistici.
Lì l’architettura è stata salvata, ma il dialetto è metaforicamente sparito.
Un mercato restaurato che ha perso la voce dei suoi abitanti, diventando vetrina, più che luogo.
Visitato, ma non vissuto.
Qualcuno tempo fa ha chiesto: cosa ne pensate di questo progetto? Esiste un’altra possibilità? Un’altra visione dello stesso luogo?
Cerco le risposte per immaginarmi un Mercato che non sia “ contenitore deputato al commercio”, ma “ culla di relazioni quotidiane” come era all’origine.
Non una food hall, ma una piazza coperta a disposizione della cittadinanza e contro la solitudine urbana. Un luogo dove la bellezza non sia in vendita, ma in condivisione.
Un luogo esperienziale, cioè di consapevolezza emotiva, anche per chi ci lavorerà, oltre per chi lo frequenterà, travolti entrambi nel pirandelliano gioco delle parti.
Penso ad una inedita sceneggiatura che porti recupero dei gesti e dei pensieri, non delle cose, a uno spazio che non richieda all’ingresso un biglietto o un motivo, ma solo lo stare. E ricevere.
Per trovare un libro, un laboratorio, una parola gentile, un’attenzione “umana”.
Per scoprire la città attraverso una lente nuova: quella del racconto, del gesto quotidiano, del sapere condiviso, della possibilità di esporre il proprio talento e donarlo: quanti in città hanno bisogno di un luogo, e non lo trovano, che sia confronto e conforto? Musica e teatro cibo per l’anima, si dice.
Mercato come scuola di convivenza e cittadinanza, atelier di relazioni, giardino pensile di incontri.
Luogo che appartiene a tutti, non perché neutro, ma perchè nutrito da chi lo abita.
Rigenerazione urbana che produce rigenerazione umana. Ciascuno porta ciò che ha e un po di sé.
Due visioni, dunque. Una più orientata al commercio, all’efficienza.
L’altra più radicata nella comunità, nei bisogni delicati, nelle fragilità e nei desideri di chi vive Ferrara ogni giorno o di chi un giorno vi si trova a passare: attori e comparse per un palcoscenico di curiosi impenitenti.
E attorno a questo Mercato-Agorà – piazza coperta, isola di refrigerio estivo o rifugio invernale ricco di calore umano, di sapere da condividere – che potranno svilupparsi – allora sì! – le attività commerciali in risposta alla desertificazione del centro storico.
Il progetto si amplia, diventa trainante: ecco nascere un piccolo borgo pulsante di vita che rilancia il circuito delle botteghe di prossimità, in aperta condivisione di pensieri e sapori, aria comune da respirare, del sapere e del saper fare, vero scrigno delle specificità territoriali da coltivare con rappresentazioni quotidiane.
Attorno, nei vicoli e nelle piazzette adiacenti, non dentro al Mercato, se non le essenziali nelle loro particolarità, per il funzionamento dello stesso (punto di ristoro a gestione condivisa e a km zero o gestito da enti del terzo settore o Scuola Alberghiera scuola di cucina, perchè no?)
Rispetto al progetto ufficiale sarebbe forse meno redditizio nel breve periodo. Ma sarebbe più fertile nel tempo.
Un investimento sul legame, sulla prossimità, sul diritto di ciascuno a sentirsi parte di un luogo vero che gli assomiglia.
Un investimento che possa essere esempio e rete non solo per i quartieri della Città, ma anche per tante realtà periferiche parti di una filiera che comunque produce, sostiene e racconta le peculiarità del territorio.
La risposta non sta nello scegliere una o l’altra, ma nel tenere viva la domanda:
Che tipo di città vogliamo essere?
Una città che espone, o una che accoglie?
Una città che attrae, o una che coinvolge?
Una città che mostra, o una che si lascia toccare?
E se qualcuno chiedesse: a cosa serve tutto questo?
Risponderemmo con semplicità:
Serve a riconoscerci.
Serve a sentire la città come casa.
Serve a dire che Ferrara non è solo passato, ma presente che si prende cura di sé pensando al futuro.
Il Mercato Coperto, o Comunale, come ancora esso stesso insiste a farsi chiamare, in fondo, è ancora lì. Ci guarda in silenzio. Aspetta solo il regista che gli ridia ruolo e voce. E quella voce, forse, possiamo essere noi.
Per rendere i nostri luoghi comuni, particolari.
Notevolissimo articolo,, stimolante, commovente, propositivo, immaginifico!
Sarebbe bello se la Giunta Fabbri si ispirasse anche solo per una piccola parte alle atmosfere che suggerisci per fare il capitolato della gara d’appalto e individuare i criteri di selezione dei progetti…
Intanto continuiamo a sognare!