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Sviluppo Economico: Il business dello spettacolo/intrattenimento può far rinascere Ferrara?
L’interessante contributo di Francesco: SVILUPPO ECONOMICO, LAVORO E QUALITA’ DELLA VITA mi spinge ad affrontare un argomento che, indirettamente, la contestazione dei residenti di piazza Ariostea ha reso d’attualità.
Con un Sindaco e Giunta che, forti di un largo consenso elettorale, hanno promesso “ Sempre più sostegno e valorizzazione delle iniziative e degli eventi culturali e di spettacolo di qualità per una Città attrattiva sotto il profilo turistico” è giusto andare a verificare quanto queste scelte politiche abbiano effettivamente contribuito a far mantenere l’altra grande promessa elettorale : Ferrara Rinasce .
Visto che per ora Ferrara non è morta, l’idea di una sua rinascita o di un suo “rinascimento” si traduce nell’idea di farla uscire da un non meglio precisato periodo di tenebre (politiche, sociali, culturali?) o forse più realisticamente di fermarne il declino socio-economico.
Ma davvero si pensa di fermare questo declino puntando quasi tutto sul turismo e sul business dello spettacolo/intrattenimento?
Il declino socioeconomico di Ferrara è un processo complesso e multifattoriale caratterizzato da una riduzione progressiva della qualità della vita, delle opportunità economiche e della coesione sociale per i suoi abitanti. Non è un crollo, è un processo lento partito molti anni fa.
Molti indicatori economici, demografici, sociali, urbani ed ambientali permettono di parlare di declino socio-economico di Ferrara. Sintetizzando: Ferrara è una città dove la popolazione, le imprese manufatturiere, gli esercizi commerciali calano e dove la popolazione è sempre più anziana e povera. Un buon indicatore del declino di una città sempre più povera è la variazione del potere d’acquisto dei suoi residenti negli anni.
Come detto, non è un fenomeno recente.
Capoluogo | Crescita reddito (%) | Inflazione (%) | Potere d’acquisto reale (%) |
---|---|---|---|
Bologna | +22.6% | ~35.3% | −12.7% |
Parma | +21.6% | ~35.3% | −13.7% |
Reggio Emilia | +21.1% | ~35.3% | −14.2% |
Modena | +18.3% | ~35.3% | −17.0% |
Piacenza | +16.2% | ~35.3% | −19.1% |
Rimini | +16.3% | ~35.3% | −19.0% |
Ravenna | +10.3% | ~35.3% | −25.0% |
Forlì-Cesena | +10.3% | ~35.3% | −25.0% |
Ferrara | +6.1% | ~35.3% | −29.2% |
Però per vedere l’impatto di certe scelte, successive alla svolta politica del 2019, sull’andamento nell’ultimo decennio si può confrontare il potere d’acquisto reale dei ferraresi prima e dopo il 2019.
Periodo | Crescita reddito | Inflazione | Potere d’acquisto reale |
---|---|---|---|
2014 → 2018 | ~ +8.7% | ~2.8% | ~ +5.9% |
2019 → 2023 | ~ +14.4% | ~17.1% | ~ −2.7% |
Attenzione! Non c’è un nesso causale diretto, il paradossale “piove, governo ladro”, tra le scelte politiche di chi amministra la città e la variazione del potere d’acquisto. Tra i tanti fattori che hanno inciso economicamente nel lustro 2014-18 si deve considerare il “rimbalzo” post terremoto e nel lustro 2019-23 gli effetti della pandemia e della guerra in Ucraina, fattori ben più rilevanti delle scelte politiche di un’amministrazione comunale. Ma tant’è: i ferraresi dal 2019 al 2023 sono un po’ più poveri, soprattutto per il calo del reddito negli anni 2020 e 2022. Vedendo che Rimini, a parità di anno di imposta, è andata molto peggio di Ferrara, mentre altre province della regione sono andate davvero molto meglio, sorge il sospetto che, pur essendo il turismo un asset importante, una dipendenza eccessiva dal turismo senza una diversificazione economica può rendere le città più vulnerabili a crisi (vedi: pandemia) o a cambiamenti nelle tendenze turistiche.
Politica dello spettacolo e business dello spettacolo
Da qualche millennio, almeno dal Panem et Circensem di Giovenale, chi governa, di qualunque colore, può sfruttare i grandi spettacoli/eventi come armi di distrazione di massa . Anche se la demagogia contemporanea ha profondamente aggiornato le sue tecniche puntando soprattutto sull’audience digitale, l’organizzazione di grandi eventi, oltre a distrarre dai problemi reali, ha il vantaggio di offrire un senso di appartenenza e incanalare l’energia della folla in manifestazioni di giubilo anziché di protesta. Se questo poi può portare ad un ritorno economico per la città tanto meglio.
I guadagni, a volte stratosferici, delle star dello spettacolo sono un sintomo visibile di un business che, per alcuni suoi segmenti, è in grado di muovere grandi quantità di denaro , ma non riflettono la sua redditività complessiva, che è influenzata dall’ammontare degli investimenti, costi d’esercizio, rischi e distribuzione dei profitti lungo l’intera catena del valore.
Il business dello spettacolo/intrattenimento, inteso in senso ampio (concerti, teatro, cinema, festival, fiere, eventi sportivi, nightlife, musei, mostre, ecc.), può avere un’incidenza significativa sull’economia di una città, e in alcuni casi può rappresentare un vero e proprio motore di sviluppo .
E qui, tornando a Ferrara, la scelta da parte dell’amministrazione comunale di puntare molto su questo tipo di iniziative per far “rinascere” la città, ha una sua logica. Anche la scelta di privilegiare il turismo “rock” rispetto al turismo “arte e cultura” può essere giustificata. Il problema è che queste scelte richiedono sempre una adeguata pianificazione strategica che tenga conto della vocazione della città, del pubblico di riferimento, delle infrastrutture esistenti e della capacità di attrarre investimenti privati, ecc… Il marketing territoriale che mira a rendere la città più attrattiva e competitiva non è sufficiente a creare vivibilità e valore per tutti nel lungo periodo e solo un corretto monitoraggio può valutare l’adeguatezza della pianificazione strategica che dovrebbe precedere ogni operazione di questo genere.
Chi non impara dai propri errori è destinato a ripeterli: BRUCE, una lezione che brucia.
I passi per una corretta pianificazione strategica per una politica pubblica dello spettacolo/intrattenimento sono gli stessi che deve fare l’industria privata degli eventi: definizione di un calendario senza sovrapposizioni o saturazioni; definizione del pubblico/turismo target; definizione delle location adeguate all’evento; progettazione e realizzazione delle infrastrutture necessarie; ecc…Ci sono almeno 3 eventi che sollevano dubbi sulla pianificazione strategica adottata con l’idea di far “rinascere” Ferrara promovendo una Ferrara “Spettacolo Rock” affianco della Ferrara “Arte e cultura”: il concerto di Bruce Springsteen, il Busker Festival e il Ferrara Summer Festival.
Il concerto di Bruce Springsteen di maggio 2023
può essere visto da una parte come una grande successo, una svolta nella politica dello spettacolo a Ferrara, dall’altra come un inopportuno evento che ha mostrato colossali criticità.
La decisione (tra Prefettura, Sindaco e Protezione Civile non è chiaro chi sia stato l’ultimo decisore) di svolgere comunque il concerto, a pochi giorni e pochi chilometri dai disastrosi allagamenti di quel maggio, mostra evidenti criticità: quanti spettatori potenziali o con già il biglietto in tasca non hanno potuto/voluto partecipare al concerto? Quanto è costato permettere che il concerto si svolgesse su un terreno fangoso? Quanto è costato ripristinare il parco?
Nell’industria dello spettacolo e degli eventi, più è grande l’evento pubblico che si pianifica, più è alto il rischio che, per un fulmine, un nubifragio, una impalcatura che crolla, un incendio del palco, una colica del cantante o chissà cos’altro, un potenziale grande profitto si trasformi in una colossale perdita. Per questo concerto, prima e dopo, Comune e Aziende controllate o partecipate hanno speso cifre importanti, ben documentate nella loro contabilità. Una nebbia molto fitta copre invece la verifica sul ritorno economico per la Città di questo importante investimento, considerato che gli incassi dei biglietti del concerto risulta siano andati tutti al privato. Per ogni investimento di soldi pubblici di questa portata, è materia da Corte dei Conti, si deve dimostrare il primario interesse pubblico, oltre che coerenza, competenza e finalità dei fondi erogati (ad esempio: non è competenza di un Teatro comunale realizzare strade nei parchi). Insomma ben vengano le sinergie con i privati, ma i soldi pubblici usciti dalle casse del Comune e delle partecipate/controllate possono prefigurare un danno erariale se non c’è un congruo beneficio pubblico o un ritorno diretto d’investimento.
La ricerca promossa dal Comune per stimare l’indotto economico del concerto del Boss lo quantifica in ben 10.319.906 €.
I toni quasi trionfalistici con cui sono stati pubblicizzati i risultati di questa ricerca dal Comune e da alcuni media ( “Un milione di investimenti ne ha generati dieci di indotto” ) hanno indotto molti a pensare che Ferrara abbia avuto dal concerto del Boss un ritorno economico di 10 milioni di euro. La ricerca non dice affatto questo. Infatti la ricerca non delimita l’area dove si presume che gli spettatori del concerto abbiano speso tutti quegli Euro. Basti dire che la stima statistica delle spese totali si riferisce per oltre il 44% (4.451.700 €) a spese di trasporto, che per loro natura in massima parte non si riferiscono a Ferrara e in molti casi sono state fatte fuori dall’Italia.
Anche della stima statistica delle spese di pernottamento pari a 2.452.600€ la ricerca presume che solo 1.643.300€ siano stati spesi a Ferrara. Quindi defalcando trasporti e pernottamenti il presunto indotto economico per Ferrara già si dimezzerebbe. Ma leggendo la ricerca emergono alcune criticità metodologiche che anche un profano di raccolta, analisi, interpretazione dei dati come me potrebbe rilevare. C’è chi definisce la statistica una scienza inesatta in quanto presuppone un livello di incertezza o errore. In questo caso, valutando come sono stati ricavati questi 10 milioni di indotto (visto il fattore di confidenza sarebbe stato più corretto parlare di un range cioè di una qualunque cifra compresa tra 9.126.047€ e 11.513.765€ ) sorgono spontanee alcune perplessità.
La stima è stata fatta elaborando, su 438 spettatori selezionati, 369 risposte delle interviste effettuate agli ingressi dell’area del concerto tra le ore 9:00 e le ore 20:30, cioè prima del concerto e prima di entrare nell’area dove poi si sarebbe svolto il concerto. Il campione di 369 interviste su 43750 spettatori sembra piccolo, ma in termini statistici potrebbe essere significativo, anche se non tutti avessero risposto a tutte le domande dell’intervista. Lascia perplessi la esatta coincidenza tra il numero di interviste effettivamente realizzate e la numerosità campionaria minima ( cioè il numero minimo di interviste da fare perché il campione sia rappresentativo dell’indotto economico prodotto dai 43750 spettatori) calcolata introducendo un errore massimo di 2 milioni e una deviazione std di 450€ .
Visto che le interviste sono state fatte prima del concerto:
- solo una parte delle spese riportate era stata effettuata mentre delle spese future gli spettatori potevano fornire solo una stima di spese previste.
- Tutte le risposte sulla “customer satisfaction” (come “soddisfazione generale” sull’organizzazione dell’evento oppure “tornerei per un’altro evento nello stesso luogo”) hanno un peso poco significativo , visto che la domanda era fatta prima di aver messo i piedi nel fango e aver valutato la qualità del concerto.
Oltre alle perplessità che derivano dall’aver tratto conclusioni da stime di stime nella ricerca si possono rilevare alcuni assunti quantitativi e metodologici che sollevano forti perplessità.
Cito:
- “ipotizzando (da studi precedenti) una deviazione standard dell’indotto economico individuale = 450€” Quali studi? Con che presupposti e condizioni al contorno? In genere, nelle ricerche di questo tipo le citazioni sono sempre accompagnate da riferimenti e note bibliografiche a supporto. E’ normale che la deviazione standard sia superiore al presunto indotto medio di 235,8€, d’altra parte lo spettatore che viene da Stoccolma ha certamente speso molto di più dello spettatore che viene da corso Giovecca, ma perché proprio 450€ ?
- “sotto assunzione di normalità dei dati” non tutti i fenomeni sono descritti da una normale/gaussiana o meglio da una log-normale, quando non vanno sotto zero.
- “campionamento sistematico con passo pari a 100, cioè selezionando uno spettatore ogni 100”, ma un campionamento sistematico di questo genere non è propriamente “casuale”, condizione che sola garantirebbe rappresentatività e confidenza dei dati raccolti.
Come detto prima, l’indotto stimato nella ricerca non si riferisce alla sola Ferrara e mancano molti dati di incidenza per distinguere le spese dovute effettivamente al concerto da quelle che sarebbero comunque avvenute (spostamento temporale/geografico).
Un’altra valutazione importante che non ho trovato è relativa all’indotto negativo per la città. Una città come Ferrara, con decine di migliaia di spettatori, concentrati in un tempo limitato, è una città dove, a fronte di molti esercizi, soprattutto alimentari, che hanno visto un temporaneo aumento delle entrate, ci sono state tante attività ( artigiani, professionisti, servizi sanitari ecc. ) che hanno proprio chiuso o hanno cancellato appuntamenti come conseguenza dell’afflusso di spettatori che inevitabilmente impatta pesantemente sulla mobilità e viabilità urbana . Anche se alcuni conoscenti sono stati lieti di prendersi un giorno di vacanza in occasione del concerto, tutti i mancati incassi legati al concerto dovrebbero essere stimati come impatto negativo.
Nella ricerca manca infine la minima validazione delle stime utilizzando dati certi disponibili in registri comunali. Ad esempio se dalle 369 interviste hanno stimato che ci sono stati per il concerto 1643 pernottamenti a Ferrara basterebbe verificare nel gettito della tassa di soggiorno di quei giorni se c’è stata una variazione significativa e correlata. Analoga validazione si potrebbe fare per la stima delle visite ai musei (ad esempio secondo lo studio in quell’occasione, 3551 spettatori del concerto di cui 1307 stranieri avrebbero visitato la mostra sul Rinascimento, non ci voleva molto a verificarlo confrontando gli ingressi di quei giorni con le medie del periodo ).
Queste considerazioni non devono portare a pensare che sia sbagliato puntare sullo spettacolo privato, anche con grandi eventi, per contribuire allo sviluppo economico di Ferrara; ma come in qualunque attività economica è indispensabile una adeguata programmazione, la realizzazione di infrastrutture adeguate e un processo di verifica dei risultati che permetta di indirizzare le scelte future. Nel 2024, quindi non nell’anno del concerto, il numero dei pernottamenti a Ferrara (500.593) ha superato del 4,5% quelli del 2019 (479.111). Questo aumento, sebbene modesto, ha implicazioni profonde per l’economia turistica locale, dove l’aumento dell’attrattività della città può dipendere anche dall’organizzazione di grandi concerti; ma non è affatto vero che Ferrara ha avuto un ritorno economico di 10 milioni di Euro dal concerto del Boss.
Come detto, non è solo il concerto di Bruce Springsteen a suggerire di correggere o indirizzare meglio alcune scelte programmatiche del Comune di Ferrara. Comunque, ragionando in termini di sviluppo economico, fa pensare il fatto che ci si dia tanto da fare per invitare a Ferrara gli Slipknot mentre sembra che nessuno si preoccupi del progressivo disimpegno dal petrolchimico di Lyondell-Basel e Eni-Versalis.
NOTE
Tipici indicatori del declino socio-economico
I principali indicatori economici di declino socio-economico di una città sono:
- Perdita di posti di lavoro: Chiusura di industrie, delocalizzazione di aziende, riduzione del settore manifatturiero o tradizionale.
- Diminuzione del potere d’acquisto ( Δ reddito pro capite/ Δ inflazione) – Salari medi più bassi, aumento della povertà e della disuguaglianza economica.
- Riduzione dell’attività commerciale: Chiusura di negozi, centri commerciali meno frequentati, diminuzione degli investimenti.
- Calo del gettito fiscale: Minori entrate per le amministrazioni locali, che si traduce in servizi pubblici ridotti.
- Sottosviluppo di nuovi settori: Incapacità di attrarre o sviluppare industrie innovative o ad alto valore aggiunto.
I principali indicatori demografici sono:
- Spopolamento: Emigrazione di residenti, in particolare giovani e forza lavoro qualificata, verso città con maggiori opportunità.
- Invecchiamento della popolazione: Minore natalità e maggiore aspettativa di vita, con una percentuale crescente di anziani rispetto ai residenti in età lavorativa.
- Squilibrio demografico: Alterazione della struttura per età e genere della popolazione.
I principali indicatori di deterioramento Sociale sono :
- Aumento delle disuguaglianze: Divario crescente tra diverse fasce della popolazione in termini di reddito, accesso ai servizi e opportunità.
- Aumento della criminalità: correlato in genere all’aumento delle disuguaglianze, disoccupazione e povertà.
- Degrado urbano: Abbandono di edifici, spazi pubblici trascurati, peggioramento delle infrastrutture.
- Diminuzione della qualità dei servizi pubblici: Riduzione dell’efficienza di trasporti, sanità, istruzione, sicurezza.
I principali indicatori di deterioramento Urbano e Ambientale:
- Abbandono di aree industriali o residenziali: Creazione di aree abbandonate o zone degradate.
- Infrastrutture obsolete o non mantenute: Strade, ponti, reti idriche ed energetiche che non rispondono più alle esigenze.
- Problemi ambientali: Inquinamento, gestione dei rifiuti inefficiente, perdita di spazi verdi, mancato adeguamento ai cambiamenti climatici.

Sicurezza climatica nella Cra “Ripagrande”. Zonari evidenzia criticità nelle risposte ricevute
Dopo l’interrogazione del 7 luglio scorso arriva la risposta dell’assessora competene Cristina Coletti e la replica della consigliera de La Comune di Ferrara
Dopo l’interrogazione dello scorso 7 luglio sulla sicurezza climatica e sanitaria nella Cra “Ripagrande” protocollata da Anna Zonari arriva la risposta dell’assessora competente Cristina Coletti e la replica della consigliera de La Comune di Ferrara.
Una replica nella quale vengono evidenziate “alcune criticità” che “rimangono irrisolte”.
“Nel suo intervento – scrive Zonari – viene giustamente riconosciuta la pericolosità delle ondate di calore per la salute delle persone anziane fragili. Tuttavia, il passaggio in cui si afferma che “il caldo percepito dagli anziani in condizioni di non autosufficienza è diverso da quello percepito dalle persone autosufficienti provenienti dall’esterno” rischia di relativizzare il problema, spostando l’attenzione dalla necessità di rispettare precisi parametri ambientali (come quelli indicati dalle linee guida regionali: 24–26°C) alla percezione soggettiva del disagio. Proprio la maggiore vulnerabilità fisiologica degli ospiti non autosufficienti impone invece un’osservanza rigorosa di tali standard”.
La consigliera lamenta dunque la “mancanza di dati oggettivi e trasparenza”. Nella risposta dell’assessora Coletti non vi è “alcuna rilevazione puntuale delle temperature interne registrate nei giorni di emergenza climatica, né specifica se tali dati siano disponibili”.
Critica dunque un’affermazione ritenuta “generica” secondo cui “gli operatori monitorano quotidianamente le temperature”. Ciò non rendere possibile “verificare se siano stati effettivamente rispettati i parametri indicati dalle linee guida” e “quali temperature siano state rilevate nei diversi ambienti, in particolare nelle stanze private, oggetto specifico delle segnalazioni da parte dei familiari”.
Nell’interrogazione la consigliera, alla luce delle temperature molte alte rilevate all’inizio del mese di luglio chiedeva se l’Amministrazione comunale, Asp e Ausl Ferrara avessero “verificato il rispetto delle linee guida regionali in materia di benessere termico – che indicano un range ottimale di temperatura compreso tra 24 e 26°C – e se siano disponibili rilevazioni puntuali delle temperature interne nei diversi ambienti della struttura durante i periodi di emergenza climatica”.
Infine Zonari nota la “persistenza di un approccio emergenziale”. “Si riconosce – spiega – l’esistenza di criticità croniche negli impianti e si fa riferimento a interventi tecnici già effettuati o in corso. Tuttavia, non vengono fornite indicazioni circa l’elaborazione di un piano strutturale e organico di adeguamento climatico della struttura, necessario alla luce del progressivo aumento di eventi estremi legati al cambiamento climatico”.
La consigliera aveva interrogato l’amministrazione in merito all’intenzione di “attivare o sollecitare presso Asp interventi strutturali o gestionali finalizzati a garantire condizioni di sicurezza climatica per gli ospiti della struttura, anche in previsione delle ulteriori
ondate di calore attese nelle prossime settimane estive e negli anni a venire”.
“L’Azienda Servizi alla Persona – ha risposto Cristina Coletti – sta affrontando da diversi anni importanti problematiche nella manutenzione degli impianti idrotermosanitari. Lo scorso anno è stato affidato un apposito incarico a tecnico specializzato per l’effettuazione di un’approfondita diagnosi energetica, a seguito della quale sono stati realizzati interventi migliorativi sull’impianto per un importo di oltre 50 mila euro, interventi peraltro che sono proseguiti nel corso di quest’anno per un importo superiore. Sono state riscontrate perdite nell’impianto di aerazione e a tal proposito è stata incaricata una ditta specializzata nelle sigillature. Generalmente, durante le emergenze nel periodo invernale ed estivo, Asp è sempre prontamente intervenuta a supporto dei reparti con ospiti fornendo dispositivi di condizionamento mobili e verificando costantemente il comfort dei locali e controllando le temperature”.

Visto da vicino nessuno è normale La follia nel DDL 1179, Disposizioni in materia di tutela della salute mentale
Se per Basaglia “visto da vicino nessuno è normale”, se ormai è consolidato il concetto che non esiste un confine fra follia e normalità, se sappiamo che solo Lombroso poteva pensare di distinguere fra sani e folli, come è possibile che sia stato presentato un disegno di legge con la proposta di “interventi che riducano il divario esistente tra le persone affette da disturbo mentale e le persone sane”?
Questo ha scritto Francesco Zaffini di Fratelli d’Italia nel DDL 1179, Disposizioni in materia di tutela della salute mentale presentato al senato il 27 giugno scorso (qui il testo e qui un articolo su Repubblica, unico quotidiano che finora ne ha parlato).
A me queste parole suonano come “ridurre il divario fra chi deve usare una sedia a rotelle per muoversi e chi no”, “farò uscire il caffè dai rubinetti”. Quale sarebbe lo scopo? Far camminare tutti con le gambe per non dovere abbattere le barriere architettoniche? Che nessuno si senta diverso? Che sia obbligatorio essere o sembrare sani?
Dando un colpo al cerchio e uno alla botte, nel disegno di legge si parla della “incolumità e dell’aggiornamento dei professionisti” e della “massima attenzione alla sua [del “malato”] incolumità fisica, a quella dei suoi familiari e degli operatori”. Non si parla quindi del benessere di chi ha un disagio, ma della sua supposta aggressività.
Il testo è intriso della ambigua malizia di anteporre una finta offerta di protezione a chi soffre, sottintendendone nello stesso tempo la pericolosità certa, e la necessità di curare tale predisposizione mediante la segregazione e il contenimento, anche tramite la forza pubblica.
Come se tutto fosse perfettamente predeterminato e immutabile fin dall’inizio, la legge attiverà una “individuazione precoce del disagio giovanile, la prevenzione dei disturbi e l’intervento precoce psicosociale” e “l’individuazione tempestiva dei disturbi mentali sin dalle fasi dell’infanzia,” “al fine di assicurare il godimento del diritto alla salute mentale, intesa come uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale”.
Obbligheranno le persone al diritto di stare bene? Si capovolge anche il senso della dichiarazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, la cui definizione completa recita: ”una condizione di completo benessere fisico, mentale e sociale e non esclusivamente l’assenza di malattia o infermità.” Questo contraddice la distinzione fra sani e malati, perché la salute è come si gestisce l’insieme, comprese le patologie. Se una persona ha il diabete, il suo diritto alla salute si realizza nella possibilità di vivere pienamente, al di là del disagio.
Il politico si rivolge a una bella fetta di elettorato: intanto tutti quelli in cui è stata instillata la paura di tutto da una informazione malata, che ha caricato falsità sugli episodi di aggressione negli ospedali; poi gli operatori sanitari stessi, che si occupino di salute mentale o no, le famiglie, che in grande numero convivono con la sofferenza psichica in condizioni di carenza di supporto medico e di politiche sociali, la scuola, caricata sempre più di compiti che non sono i suoi.
Ancora una volta, i più fragili tra i fragili vengono individuati come capro espiatorio, facile operazione in un contesto dove ci si sente autorizzati a definire “oggettivamente” con un semplice conteggio chi è normale e chi no, senza neanche prendersi la responsabilità di dire che lo si sta stigmatizzando, crudeltà gratuita e vigliacca. L’atteggiamento è sempre quello di far credere che esistano persone sbagliate, che vanno aggiustate per il loro bene.
Un’idea completamente campata in aria, quella della pericolosità di chi ha un disagio mentale. È stato dimostrato infatti che le persone con patologie psichiche gravi commettono gesti delinquenziali con tassi analoghi a quelli di chi non ne è affetto.
Il DDL Zaffini è la concretizzazione di questo: deriva da una cultura della sopraffazione. Le statistiche, al contrario di quello che si pensa, riportano che è più probabile che una persona con disturbo mentale subisca piuttosto che operi violenza e che di solito essa tenda a fare male a se stessa, piuttosto che agli altri.
Oggi sappiamo che il nostro comportamento è dovuto a una triade di fattori: quello biologico, quello psicologico, cioè come le esperienze ci hanno influenzato, quello sociale. È la società intorno a chi ha il disagio ad essere malata e la cura avviene in un’interazione fra i tre livelli, che si modificano a vicenda. Il modo in cui una persona può relazionarsi nel sociale è quello che la cura o la ammala: meglio faremo stare una persona nel sociale, meglio starà e meno aggressività potrà incamerare.
Lascio riflettere il lettore se sia possibile pensare che una patologia possa guarire senza la collaborazione del paziente. Durante la pandemia abbiamo assistito al rifiuto dei vaccini da parte di un grande numero di persone; la costituzione garantisce la libertà di cura.
Ma al di là di questo, si dovrebbe sapere, affrontando il tema della salute mentale, che la non consapevolezza della malattia è un sintomo esso stesso che si chiama “anosognosia”. Lo psicologo Xavier Amador raccontava di una signora che doveva prendere i farmaci e che, quando li trovava nella spazzatura, chiedeva ai familiari di chi fossero, perché non si rendeva conto di averli buttati lei. Amador ha studiato un approccio alle persone con disturbo che ottiene la loro fiducia e la loro aderenza alla cura, ma tale approccio esclude categoricamente la coercizione e se seguite uno dei suoi video, molto piacevoli, potete anche capire perché l’obbligo non può funzionare.
Certo anche il nostro Zaffini dice che bisogna cercare di ottenere il consenso, ma senza contarci troppo. Nel disegno di legge infatti “sono disposte le misure di sicurezza pubblica necessarie al contenimento degli episodi di violenza contro il personale”, “Gli operatori della salute mentale attuano misure e trattamenti coattivi fisici, farmacologici e ambientali”. Il trattamento sanitario obbligatorio viene esteso da un massimo di 7 giorni a 15 giorni: non so se questo sia un modo per rendere la vita degli operatori e delle operatrici più semplice.
Una persona con un disturbo non è necessariamente violenta, quindi, e anche se ha una psicosi può scegliere di non commettere le azioni comandate dalle voci che sente, tanto che tra gli psichiatri è aperta la discussione se sia opportuno perseguire chi commette un reato avendo un disturbo psichico. D’altronde si rileva continuamente che gli autori di delitti efferati non soffrono di patologie psichiche.
Purtroppo la professionalità anche degli psichiatri non è sempre al massimo livello, e pare che non tutti siano padroni delle tecniche di de-escalation che servono per placare lo stato d’animo di un paziente agitato. Queste tecniche sono usate in vari campi, tanto che lo psichiatra Valerio Rosso, che pubblica un brillante e utile blog, consiglia il testo usato dalla polizia negli Stati Uniti Conflict Management For Law Enforcement: Non-escalation, De-escalation, and Crisis Intervention For Police Officers. Ognuno, ognuna di noi ha bisogno di apprendere queste tecniche che ci possono proteggere in situazioni di violenza in cui possiamo incorrere.
Allora difendiamoci davvero e contrastiamo il disegno di legge Zaffini, su cui è già stata avviata, da associazioni e personalità autorevolissime, una raccolta firme. [ Qui] l’appello: Fermare una tragica nostalgia di manicomio, e reagire.

Mercato Coperto, luogo comune
Questa riflessione nasce dall’idea di cominciare ad esporre il nostro modo di vedere le cose per come le avremmo fatte noi anche se stanno prendendo altre strade. Per capire nel tempo se le avremmo fatte bene, male o meglio, in ogni caso con una visione differente, per un confronto che possa maturare progetti condivisi e non imposti, che tenga conto di necessità spesso ignorate e che possa produrre nuove idee, non praticabili a giochi fatti, ma in futuro, quando i giochi si ripresenteranno.
Per non dover più sentirci dire “hanno detto che fanno”.
Era tanto che ci pensavo al vecchio mercato coperto dí Santo Stefano, o Mercato Comunale, come amava farsi chiamare.
Ci andavo ormai 60 anni fa con nonno Luigi a far la spesa per la giornata.
Ad ogni bancarella e dopo i convenevoli di rito, venivano snocciolati i desiderata che finivano in una borsa e il riporto del dovuto registrato – segno Dottore ? – sul quaderno della fiducia da onorare puntualmente a fine mese, come al solito.
Atto finale l’imposizione della mano del nonno sul mio capo, per la presentazione del timido nipote e i complimenti del fornitore di turno, sempre difficili da digerire a quell’età.
Gli acquisti li avrei visti dopo, da vicino e nella dose giusta per non buttare nulla, sul tavolo di cucina quando nonna Pinina cominciava a svolgere i pacchetti, perché al mercato le bancarelle erano ancora troppo alte per me.
Questo era il Mercato. Scuola di confidenza, conoscenza, fiducia, rispetto. E’ partecipazione.
Poi la mia lunga assenza da Ferrara e quando con la famiglia tornammo il mercato era già caduto in disuso, travolto dalla grande distribuzione che avanzava. Abbandonato. Anche un vano tentativo di rilancio non riuscì a risollevarlo. Era arrivata la STANDA. Il libero servizio. Le cassiere. Lo scontrino e la riscossione immediata. Prendere o lasciare. Oneri da saldare subito contro onori da salvaguardare.
Scuola di convenienza, persuasione, fidelizzazione, sostituzione. E’ consumo.
Ho visto tanti mercati coperti (alcuni morire e rinascere); quelli delle grandi città: Genova Bologna e Ravenna, Barcellona Berlino e Parigi e Torino. Madrid e Amburgo – al FishMarkt*, con aringhe appena pescate e con tanto di band rock&blues alle 7 di mattina in una domenica d’inverno – chi se lo dimentica? – ; quelli di infiniti centri minori, di cui non faccio elenco per non fare eco ad Umberto Eco.
Chi più orientato all’acchiappaturista mordi e fuggi, chi più verso un servizio di vicinato, socializzazione e condivisione da mordi sul posto e guai se te ne avanza e giù chiacchiere.
Uffici turistici i primi, dimmi chi sei e da dove vieni i secondi.
Cose da prendere contro cose da dire. Souvenir contro confessionali.
Delle cose da prendere rimane poco: anche i sapori se ne vanno, dissolti nella nuova aria.
Delle cose da dire rimane molto: nelle mani che si incrociano, che si toccano, che si lasciano e che vanno.
E occhi, tanti occhi che salutano, si assolvono e ringraziano. Umanità in cambio di umanità: baratto senza merci, mercato di sentimenti, tutti un po’ diversi, dentro tanto uguali.
Il Mercato Coperto è uno di quei luoghi che non stanno solo nello spazio, ma anche nel tempo.
È architettura, certo, ma anche ricordo, racconto, promessa, rappresentazione quotidiana.
E oggi, finalmente, ma forse ormai tardi, torna al centro del dibattito pubblico con progetti, visioni, render digitali e parole come “rigenerazione”, “hub”, “vocazione commerciale”.
È un bene che se ne parli, era tanto che ci pensavo sul quando e come lo avrebbero ristrutturato.
Ma è anche un bene fermarsi a immaginare di più.
La proposta attualmente in campo – firmata da uno studio di rilievo, sostenuta dall’Amministrazione con il concorso di fondi pubblici e privati – punta a fare del Mercato Coperto un contenitore multifunzionale, aperto al commercio, alla ristorazione, al co-working.
“Lo scrigno delle tipicità”, lo hanno chiamato. La forma architettonica effettivamente corrisponde alla promessa: una specie di astuccio per gioielli.
Uno spazio elegante, razionale, rinnovato: pensato per attrarre, per generare movimento economico, per restituire vitalità al centro.
È una visione legittima, concreta. Ma anche, in parte, prevedibile.
Perché tutto ciò che ruota attorno al cibo gourmet, alla vendita, all’intrattenimento esperienziale a pagamento, per quanto ben progettato, rischia di replicare un modello già visto e che riconosciamo ad esempio nel Mercato Centrale di San Lorenzo a Firenze: un tempo cuore popolare, oggi palcoscenico per ristoratori stellati e flussi turistici.
Lì l’architettura è stata salvata, ma il dialetto è metaforicamente sparito.
Un mercato restaurato che ha perso la voce dei suoi abitanti, diventando vetrina, più che luogo.
Visitato, ma non vissuto.
Qualcuno tempo fa ha chiesto: cosa ne pensate di questo progetto? Esiste un’altra possibilità? Un’altra visione dello stesso luogo?
Cerco le risposte per immaginarmi un Mercato che non sia “ contenitore deputato al commercio”, ma “ culla di relazioni quotidiane” come era all’origine.
Non una food hall, ma una piazza coperta a disposizione della cittadinanza e contro la solitudine urbana. Un luogo dove la bellezza non sia in vendita, ma in condivisione.
Un luogo esperienziale, cioè di consapevolezza emotiva, anche per chi ci lavorerà, oltre per chi lo frequenterà, travolti entrambi nel pirandelliano gioco delle parti.
Penso ad una inedita sceneggiatura che porti recupero dei gesti e dei pensieri, non delle cose, a uno spazio che non richieda all’ingresso un biglietto o un motivo, ma solo lo stare. E ricevere.
Per trovare un libro, un laboratorio, una parola gentile, un’attenzione “umana”.
Per scoprire la città attraverso una lente nuova: quella del racconto, del gesto quotidiano, del sapere condiviso, della possibilità di esporre il proprio talento e donarlo: quanti in città hanno bisogno di un luogo, e non lo trovano, che sia confronto e conforto? Musica e teatro cibo per l’anima, si dice.
Mercato come scuola di convivenza e cittadinanza, atelier di relazioni, giardino pensile di incontri.
Luogo che appartiene a tutti, non perché neutro, ma perchè nutrito da chi lo abita.
Rigenerazione urbana che produce rigenerazione umana. Ciascuno porta ciò che ha e un po di sé.
Due visioni, dunque. Una più orientata al commercio, all’efficienza.
L’altra più radicata nella comunità, nei bisogni delicati, nelle fragilità e nei desideri di chi vive Ferrara ogni giorno o di chi un giorno vi si trova a passare: attori e comparse per un palcoscenico di curiosi impenitenti.
E attorno a questo Mercato-Agorà – piazza coperta, isola di refrigerio estivo o rifugio invernale ricco di calore umano, di sapere da condividere – che potranno svilupparsi – allora sì! – le attività commerciali in risposta alla desertificazione del centro storico.
Il progetto si amplia, diventa trainante: ecco nascere un piccolo borgo pulsante di vita che rilancia il circuito delle botteghe di prossimità, in aperta condivisione di pensieri e sapori, aria comune da respirare, del sapere e del saper fare, vero scrigno delle specificità territoriali da coltivare con rappresentazioni quotidiane.
Attorno, nei vicoli e nelle piazzette adiacenti, non dentro al Mercato, se non le essenziali nelle loro particolarità, per il funzionamento dello stesso (punto di ristoro a gestione condivisa e a km zero o gestito da enti del terzo settore o Scuola Alberghiera scuola di cucina, perchè no?)
Rispetto al progetto ufficiale sarebbe forse meno redditizio nel breve periodo. Ma sarebbe più fertile nel tempo.
Un investimento sul legame, sulla prossimità, sul diritto di ciascuno a sentirsi parte di un luogo vero che gli assomiglia.
Un investimento che possa essere esempio e rete non solo per i quartieri della Città, ma anche per tante realtà periferiche parti di una filiera che comunque produce, sostiene e racconta le peculiarità del territorio.
La risposta non sta nello scegliere una o l’altra, ma nel tenere viva la domanda:
Che tipo di città vogliamo essere?
Una città che espone, o una che accoglie?
Una città che attrae, o una che coinvolge?
Una città che mostra, o una che si lascia toccare?
E se qualcuno chiedesse: a cosa serve tutto questo?
Risponderemmo con semplicità:
Serve a riconoscerci.
Serve a sentire la città come casa.
Serve a dire che Ferrara non è solo passato, ma presente che si prende cura di sé pensando al futuro.
Il Mercato Coperto, o Comunale, come ancora esso stesso insiste a farsi chiamare, in fondo, è ancora lì. Ci guarda in silenzio. Aspetta solo il regista che gli ridia ruolo e voce. E quella voce, forse, possiamo essere noi.
Per rendere i nostri luoghi comuni, particolari.

Genocidio a Gaza

La Comune di Ferrara e le altre forze di minoranza al Sindaco: si prepara l’esternalizzazione degli asili comunali?
La Comune di Ferrara, Movimento 5 stelle, Lista civica Anselmo e PD, chiedono chiarimenti in merito all’analisi per l’eventuale affidamento a privati dei servizi educativi 0-6 anni del Comune e sul documento “Value for Money”
I precedenti e il contesto.
• Il Comune ha dato l’incarico alla ditta P.F.C. srl, con una spesa aggiuntiva di 7.320,00 euro, di fare uno studio per capire se conviene affidare a privati la gestione di alcune scuole e servizi educativi comunali per bambini da 0 a 6 anni
• Questo studio si chiama “Value for Money” (Valore per Denaro) e serve a confrontare la convenienza economica di affidare i servizi a privati (attraverso un “partenariato pubblico-privato”) rispetto alla gestione diretta da parte del Comune o ai tradizionali appalti
• I servizi educativi per la fascia 0-6 anni sono molto importanti per il Comune di Ferrara. Attualmente, alcuni sono gestiti direttamente dal Comune (con personale comunale e cucina interna), mentre altri sono affidati a cooperative sociali e soggetti privati tramite accordi o appalti, soprattutto per alcuni asili nido e plessi integrati
• Già il 12 giugno 2025, i consiglieri di minoranza avevano chiesto spiegazioni sui tempi e sulle modalità di gestione futura di questi servizi. Tuttavia, l’assessora competente non ha parlato esplicitamente di questo studio di fattibilità, ma solo di una generica “fase istruttoria” per decidere se rinnovare o meno il contratto in corso
La situazione attuale e le nostre preoccupazioni.
• Il contratto attuale per i servizi educativi scade il 31 agosto 2025 e probabilmente verrà prorogato per un massimo di sei mesi
• Questa proroga è un segnale importante perché significa che le decisioni definitive non sono ancora state prese. Per questo, riteniamo sia possibile e necessario un confronto pubblico e istituzionale su queste scelte
• La realizzazione del documento “Value for Money” è un passo significativo verso un possibile cambiamento nel modo di gestire questi servizi, con il rischio concreto di affidarli progressivamente a soggetti privati
Per tutti questi motivi, chiediamo all’Amministrazione comunale di rispondere alle seguenti domande:
1. Quali scuole o servizi educativi comunali saranno esattamente studiati da P.F.C. srl in questa analisi di fattibilità e valutazione economica?
2. Questo studio riguarda anche i servizi attualmente gestiti direttamente dal Comune? E, se sì, quali cambiamenti di gestione si ipotizzano per questi servizi?
3. Che cos’è esattamente il documento “Value for Money”? Quali diversi scenari di gestione (ad esempio, gestione pubblica diretta, appalto, concessione) confronta? Quali fattori o “indicatori” prende in considerazione per la sua valutazione? E quanto peso avrà questo studio nelle future decisioni amministrative e politiche?
4. L’Amministrazione intende fornire una copia dei documenti preliminari e finali di questo studio ai consiglieri comunali?
5. L’Amministrazione intende rendere pubblici i contenuti dello studio di fattibilità e del documento “Value for Money” prima di avviare nuove gare d’appalto? E si prevede di sottoporre l’intero progetto alla valutazione del Consiglio comunale?
6. L’Amministrazione ha intenzione, una volta terminata l’analisi, di affidare a privati (in “concessione”) uno o più servizi educativi comunali? E con quali tempistiche avverrebbe tutto questo?
7. Come intende l’Amministrazione informare, coinvolgere e confrontarsi con famiglie, personale, organizzazioni sindacali e il Consiglio comunale prima di redigere un eventuale nuovo capitolato (il documento che descrive le condizioni del servizio)?

Le vespe, le api e la mobilità alternativa
Dagli insetti si impara molto: la paura, il coraggio, i ruoli, i rapporti. A volte ci interessano, altre volte ci spaventano. Più semplicemente non li conosciamo, come capita anche di noi stessi, ma osservando possono nascere nuovi pensieri, nuove domande, nuove certezze sui cui indagare.
Incontri ravvicinati
Qualche giorno fa sono stato punto da più di una vespa. Non mi ero accorto del loro alveare sopra la panchina dove avevo appoggiato la mia borsa sportiva.
So come comportarmi: scappo. Perché dalle vespe non c’è scampo.
Hanno un brutto carattere: sono irascibili, protettive e reattive. Molto territoriali soprattutto vicino al loro nido, possono attaccare anche se non direttamente minacciate e pungere più volte senza per questo morire. Hanno nidi stagionali caduchi e disordinati, simili a fogli di carta male appallottolati e destinati unicamente alla riproduzione, oserei dire intensiva, della prole, cui non lasciano alcun tipo di eredità.
La loro aggressività è dunque difensiva.
E’ la paura, l’istinto di sopravvivenza, il loro e il mio, che fa fare certe scelte.
Meglio non sfidarle.
Anche con le api so come comportarmi: le lascio fare. Le osservo spesso in campagna entrare e uscire dalle loro arnie. Lavorano instancabilmente per il bene dell’alveare per farne un ambiente perfetto, longevo, duraturo.
Sono generalmente non aggressive e pungono solo come ultima difesa (e muoiono dopo aver punto, per cui il mio e il loro istinto di sopravvivenza scendono a compromessi)
Mostrano organizzazione dei ruoli, memorizzano rotte, fonti di cibo e avvertono le compagne di eventuali pericoli.
Sono resilienti e residenti. Hanno nidi perenni dolci come il miele: si sentono sempre a casa.
A differenza delle vespe le api hanno maturato crediti in architettura per la forma delle cellette del loro nido e crediti sul lavoro per la loro proverbiale laboriosità.
Le vespe, a parte quelle della Piaggio, sono invece famose per la loro aggressività e si sprecano le metafore: “avere la lingua come una vespa” (senza riferimenti al Bruno nazionale), “essere minacciosi come una vespa” ecc ecc.
Anche la parola “sciame” assume un significato diverso: l’ape quando sciama trasferisce la residenza, ed è uno spettacolo vederne il risultato; lo sciame di vespe invece indica un attacco contro qualcuno, ed è meglio non immaginarne il risultato.
Una società da “apizzare”
Nella cultura umana, queste specie sono usate dunque come metafore viventi dei nostri stessi tratti psicologici e sociali: siamo vespe o api in relazione all’adattamento all’ambiente in cui ci troviamo.
Nonostante la vita in comunità sia regolata da ruoli sociali, leggi, compiti, responsabilità e obiettivi condivisi, facciamo fatica a vivere senza “paura” del muoverci e nonostante questo “doverci muovere” ci sia sempre più di impiccio quando è mal progettato e ci rendiamo conto di avere bisogno di una mobilità alternativa. Che può a sua volta far paura … e prendiamo l’auto.
Perché fa paura la mobilità alternativa?
Paura del cambiamento
Le persone sono abituate a spostarsi in auto privata, sinonimo di libertà e controllo. Cambiare abitudini, rinunciare al volante, o dipendere da sistemi pubblici o condivisi può generare ansia.
Incertezza e disinformazione
Non tutti conoscono come funzionano bici elettriche, car sharing, trasporti integrati o piste ciclabili sicure. Dove non c’è chiarezza, nasce la diffidenza.
Paura di perdere status
In alcune culture (e in molte città italiane), l’auto è anche simbolo di prestigio.
Rinunciarvi può essere visto come un “downgrade”, soprattutto per chi ha investito in auto costose:
Il confronto sociale è obbligatorio nei mezzi condivisi.
Insicurezza e Infrastrutture carenti
Spesso le alternative (es. bici o monopattini) non sono percepite come praticabili, soprattutto in città dove mancano piste ciclabili ben progettate o dove il traffico è aggressivo.
Convenienza percepita
L’auto è ancora vista come la soluzione più comoda, anche quando non lo è: il timore di dover “faticare di più” con mezzi pubblici o bici scoraggia molti.
Come si può superare questa paura?
Cominciare per gradi:
Educazione e comunicazione: spiegare i vantaggi reali (salute, tempo, costi, ambiente).
Esperienze positive: far provare, con eventi, incentivi, giornate senza auto e mezzi gratuiti.
Progetti inclusivi:
La mobilità alternativa deve essere pensata non solo per giovani sportivi o cittadini “green” ma per tutti.
Progetti condivisi:
Ogni miglioramento porta a sacrifici transitori che portano a benefici permanenti.
Infrastrutture sicure e ben integrate:
Senza questo, la paura è più che comprensibile.
C’è ancora paura, diffidenza, resistenza. Perché?
Perché cambiare abitudini è difficile.
Perché c’è chi teme di perdere comodità, status o clienti.
Perché ci sono interessi economici legati all’uso dell’auto privata: industrie, carburanti, assicurazioni, parcheggi.
E a volte anche la politica frena per timore di scontentare qualcuno.
Ma il vero coraggio è quello di costruire il futuro, non solo conservare il presente.
La mobilità del futuro non è una minaccia: è una opportunità.
E come tutte le opportunità, fa un po’ paura… prima di diventare normale.
L’accettazione della mobilità alternativa in fondo ci trasforma da vespe in api: una società civile ben organizzata, plurale, partecipata.
E voi, cosa ne pensate? Vi spaventa l’idea di lasciare l’auto in garage ogni tanto?
Scrivetelo nei commenti o raccontateci la vostra esperienza: siamo qui per ascoltarvi.

Scorrette le parole dell’assessore Fornasini
Durante la Commissione consiliare sul tema dell’assestamento generale del bilancio 2025-2027 e della salvaguardia degli equilibri, ho chiesto all’assessore Matteo Foransini un chiarimento su una
frase tecnica contenuta nella nota del Collegio dei Revisori dei Conti del 22 luglio 2025. La frase in questione – riportata nel verbale con oggetto Parere su salvaguardia degli equilibri di bilancio e assestamento generale di bilancio 2025/2027, relativo alla proposta di Delibera di Consiglio Comunale 114-2025 – recita:
“La documentazione di spesa caricata su ReGiS risulta perlopiù in linea con la spesa effettiva, ancorché con uno scarto temporale di due mesi circa, che il ridetto architetto ha definito cronico ed incomprimibile e che pure questo Collegio ha verificato essere tale.”
Una frase che, a mio avviso, meritava un approfondimento chiaro, proprio per comprendere la natura di quello scarto temporale definito dai Revisori “cronico ed incomprimibile”.
Avrebbe potuto fornire serenamente una risposta tecnica il vicesegretario Bonaldo, come infatti ha fatto poco dopo. Ma l’assessore, invece di cogliere l’occasione per chiarire, ha ritenuto opportuno utilizzare quel momento per rivolgere a me un’insinuazione gravissima, con toni che nulla hanno a che vedere con il rispetto istituzionale e con il confronto democratico.
Ha affermato:
“La mia sensazione è che quasi quasi lei gufi affinchè questa Amministrazione perda soldi perchè arriva lunga sul PNRR… se lei smentisce che tifa contro questa Amministrazione e contro la città affinché si arrivi in ritardo con la predisposizione degli atti e con il cronoprogramma del PNRR io sono ben contento di essere smentito.”
Trovo questo intervento non solo scorretto, ma profondamente lesivo del mio ruolo e del mio impegno. È inaccettabile che un assessore utilizzi una commissione consiliare per insinuare che una consigliera comunale “tifi contro la città” o “gufi” perché i fondi del PNRR vadano persi. È un’accusa grave, che travalica i confini del confronto politico e che offende il rispetto dovuto a ogni rappresentante eletto dalle cittadine e dai cittadini.
Non sono io a dover smentire un’accusa infondata. È l’assessore che dovrebbe chiedere pubblicamente scusa per il tono usato e per il tentativo di delegittimare il lavoro di controllo che ogni consigliera e consigliere ha il dovere di svolgere.
Non è questo il modo di fare politica che mi appartiene. Io faccio domande, entro nel merito dei documenti, esercito con serietà e determinazione il mio mandato. E continuerò a farlo, anche quando la risposta è il nervosismo o il sospetto.
Nel merito, voglio ricordare che le mie preoccupazioni sul cronoprogramma PNRR non erano frutto di allarmismo, ma erano già state certificate da precedenti verbali del Collegio dei Revisori.
E ora, con questa ulteriore nota, gli stessi Revisori confermano che lo scarto temporale di circa due mesi è “cronico ed incomprimibile” – nonostante si sia riusciti a riallineare le rendicontazioni. Anche questa è una forma di trasparenza: non negare le difficoltà, ma riconoscerle per tempo.
Il mio dovere è vigilare, controllare, porre domande. Non “gufare”. E continuerò a farlo, nell’interesse della città.
Anna Zonari
PG140984_2025_Richiesta scuse formali da parte ass- Fornasini

La Comune di Ferrara – su Delibera di Consiglio Comunale 2025-115 del 21/07/2025 AFFIDAMENTO DEL SERVIZIO PUBBLICO DI RACCOLTA RIFIUTI, SPAZZAMENTO E IGIENE URBANA NELL’AMBITO TERRITORIALE DEL COMUNE DI FERRARA MEDIANTE PROCEDURA AD EVIDENZA PUBBLICA.
1. Il metodo
La Comune di Ferrara, fin dalla sua nascita, sostiene con convinzione le richieste dei comitati che da anni domandano l’apertura di un confronto autentico, pubblico e approfondito sul futuro della gestione dei rifiuti.
Per mesi abbiamo sollecitato l’Amministrazione a prendere seriamente in considerazione l’alternativa della gestione pubblica e a promuovere un dibattito trasparente tra i possibili scenari: procedere con una gara d’appalto o optare per una gestione in house?
Solo pochi giorni fa, la Segreteria Generale del Comune ha dichiarato ammissibile la petizione promossa dal Forum Ferrara Partecipata e dalla Rete Giustizia Climatica, che chiede l’avvio di un vero processo partecipativo per orientare questa scelta strategica. Un’ammissione che oggi suona come una beffa.
Sette giorni fa, con una mossa dell’ultimo minuto, è stata convocata in fretta e furia una commissione, sostituendo senza spiegazioni una seduta che avrebbe dovuto trattare tutt’altro tema, a una sola settimana dal voto. Ci ritroviamo oggi con una delibera già firmata e con tutto, di fatto, già deciso. Il passaggio in Consiglio appare così una mera formalità da sbrigare prima delle ferie, un blitz estivo che svuota di senso il ruolo dei consiglieri e ignora completamente le richieste di coinvolgimento arrivate da comitati, associazioni, cittadini.
In appena sette giorni si liquida una decisione destinata a incidere per i prossimi 15 o 20 anni sulla gestione dei rifiuti in città, dopo che la concessione ad Hera è scaduta da ben sette anni! Una forzatura grave, che solleva interrogativi sul rispetto del confronto democratico e sulla reale volontà di coinvolgere i territori.
Questo modo di procedere è profondamente sbagliato. Il servizio rifiuti non è una questione tecnica qualunque, ma una delle grandi sfide del nostro tempo.
Parlare di rifiuti oggi significa parlare anche di mutazione climatica. Il settore è responsabile del 20% delle emissioni globali di metano causate dall’uomo: è il terzo comparto più inquinante dopo l’agricoltura e l’industria fossile. Ridurre il metano è tra le strategie più efficaci per rallentare il riscaldamento globale nei prossimi due decenni. E ciò passa anche da politiche locali: riduzione dei rifiuti, riuso, riciclo di qualità.
2. Il merito
La scelta proposta con questa delibera nasce da un’impostazione sbilanciata, che confonde i piani e distorce il dibattito. L’oggetto della delibera dovrebbe essere chiaro: come vogliamo gestire questo servizio pubblico essenziale? Attraverso una gara rivolta a operatori privati, o con una gestione pubblica, sotto il controllo delle istituzioni e della cittadinanza?
Questo è il vero nodo politico. Ma la delibera lo elude, riducendo il tutto a una valutazione economica su un solo modello, quello del “porta a porta spinto”, attribuendogli costi e criticità tali da delegittimare in partenza ogni ipotesi di gestione pubblica.
Lo studio di fattibilità commissionato all’Università di Ferrara, pur interessante in alcuni passaggi, presenta limiti evidenti. È uno studio puramente economicista, che non considera gli obiettivi ambientali, né valuta gli effetti sistemici di una gestione in house.
Ad esempio, non menziona esplicitamente che la “remunerazione del capitale”, un profitto garantito al gestore privato, non esisterebbe in una gestione pubblica. Hera percepisce da ciò 700.000 euro l’anno, che in 15 anni ammonterebbero a oltre 10 milioni di euro: un costo ben superiore ai 4-5 milioni necessari per la ripubblicizzazione.
3. Gli obiettivi
Quali sono gli obiettivi da perseguire in una gestione dei rifiuti?
Anzitutto, ridurre la quantità di rifiuti prodotti. Invece, il dato esibito come simbolo di efficienza, l’87% di raccolta differenziata, è fuorviante, se preso da solo. La qualità della differenziata è bassa: circa il 30% del materiale raccolto risulta scarto, e quindi viene avviato allo smaltimento. Il risultato? Ferrara è solo al 5° posto tra i capoluoghi dell’Emilia-Romagna per minore quantità di rifiuti smaltiti.
Altro obiettivo essenziale: ridurre i costi in bolletta. Più di un mese fa abbiamo chiesto il dato medio della tariffa rifiuti pagata da una famiglia ferrarese. Ancora non ci è stato fornito, perché necessitava di un calcolo. Eppure si continua a ripetere, anche in questa delibera, che il sistema proposto farà risparmiare le famiglie. Ma su quale base, se il dato non è nemmeno accessibile ai consiglieri ed evidentemente nemmeno all’Amministrazione?
Secondo l’ultimo rapporto di Cittadinanzattiva, Ferrara è il secondo capoluogo più caro dell’Emilia-Romagna, con un aumento del 7% in un solo anno. Ma ai cittadini non viene spiegato il perché.
Noi crediamo che una gestione pubblica e partecipata sia più adatta a perseguire obiettivi ambientali e sociali. La gestione privata, per quanto conforme alle norme, risponde a logiche differenti, in quanto per natura orientata al profitto.
Ci chiediamo infine: ha senso parlare di concorrenza quando la scelta tra gestori privati si riduce a Hera e Iren, due colossi industriali quotati in borsa che operano a livello nazionale? È davvero competizione, o un monopolio di fatto?
Il voto favorevole di oggi è un assenso a una struttura oligopolistica che rafforza la dipendenza del pubblico dal privato. Una visione che non ci appartiene e da cui prendiamo le distanze.
Per tutte queste ragioni, siamo convintamente contrari a questa delibera, che non tutela l’interesse pubblico, non garantisce trasparenza e manca di una visione ambientale e sociale autentica.

Popolazione, una parola dai confini labili
I recenti interventi governativi a revisione del “Piano strategico nazionale delle aree interne” hanno riproposto il problema dello spopolamento di vaste aree del nostro Paese. Il nuovo approccio, dai contorni fatalistici (vedi l’intervento di Filippo Barbera e altri su queste pagine il 15 luglio), si differenzia da quelli del passato, ma anche dalla percezione di altre dinamiche di popolazione (la “denatalità”, l’emigrazione all’estero degli italiani e, soprattutto, l’immigrazione straniera), che invece sollecitano interventi. Di “popolazione” fra scienza e politica abbiamo discusso con Fabrice Cahen, storico francese in forza all’INED.
Durante la pandemia siamo stati quotidianamente informati con cifre, grafici e carte sulla mortalità e i dati sono stati un vero campo di battaglia. Perché è così importante quantificare la popolazione?
Credo che la crisi del Covid abbia testimoniato la profonda ambivalenza del rapporto delle nostre società con i dati. La “fiducia nei numeri” (Ted Porter) convive con atteggiamenti di diffidenza nei loro confronti. La pandemia ha visto forme di strumentalizzazione politica del numero dei contagi e dei decessi: effettivamente i governi sono stati tentati dalla drammatizzazione dei dati disponibili per ottenere l’accettazione della restrizione delle libertà, mentre alcuni media bombardavano l’opinione pubblica con cifre diffuse senza la minima valutazione critica. Tuttavia le misure restrittive hanno fornito l’occasione per una riflessione collettiva sul significato della solidarietà, sul ruolo delle strutture sanitarie e sulla consapevolezza del rilievo degli operatori “in prima linea” e, analogamente, la dilagante produzione di cifre ha promosso forme di “pedagogia” sulle operazioni statistiche: giornalisti e divulgatori si sono sforzati di spiegare come sono stati raccolti i dati, come sono stati costruiti gli indicatori, come sono state modellate le serie.
Mentre lavoravo a una storia della misurazione del “numero degli uomini”, ho potuto notare in tempo reale gli estremi a cui portano le posizioni di “sfiducia nei numeri”, allora associate a una messa in discussione delle politiche sanitarie pubbliche e dello Stato sociale, se non addirittura dello Stato in quanto tale. Prevedibilmente, questa ondata di scetticismo tossico, nel quale convergevano posizioni libertarie, pseudo-libertarie e neoliberali (ma anche forme di ultraconservatorismo religioso), è stata carburante per l’estrema destra.
L’esperienza del Covid ha rafforzato la mia sensazione che né i feticisti del “fatto statistico”, né coloro che, invece, sulla base di una vulgata ispirata molto sommariamente a Michel Foucault o ad Alain Desrosières, inveiscono contro qualsiasi forma di “governo dei numeri”, siano davvero in grado di spiegarci cosa sono realmente le cifre in questione, cosa ne facciamo e perché sono diventate indispensabili nella gestione delle popolazioni. Mi viene spesso in mente la celebre frase di Marc Bloch: “Robespierristi, anti-robespierristi, vi supplichiamo: per pietà, diteci, semplicemente chi fu Robespierre”.
Siamo tutti convinti di saperlo, ma alla fine che cos’è la “popolazione”? Quali rischi comporta trattarla come un tutto organico?
Esattamente: siamo “convinti di saperlo” e in questa discrepanza tra l’apparente familiarità del termine e la labilità del concetto risiedono i fraintendimenti più pericolosi. Da cui discende l’interesse di farne una storia intellettuale, nel solco di Jean-Claude Perrot.
Il concetto di “popolazione” è stato oggetto di diverse re-invenzioni nel corso del tempo. A partire dal XVII secolo le discipline che hanno costituito la popolazione come oggetto (aritmetica politica, economia politica, demografia, epidemiologia) sono state caratterizzate dalla preoccupazione di cogliere i fenomeni nella loro dimensione collettiva e statistica. Nel XIX secolo queste discipline si sono distinte dalle scienze “morali” e “sociali” concentrandosi sui parametri materiali della vita umana (natalità, mortalità, migrazione). Tuttavia i loro quadri teorici non erano unificati: affermazioni come “l’Italia ha una popolazione di x milioni”, “la popolazione tende a essere proporzionata alle risorse disponibili” o “la popolazione nazionale deve essere sana e vigorosa” non presuppongono esattamente lo stesso contenuto.
Al centro del mio ultimo libro ci sono i modi in cui la popolazione è diventata sia un’entità autonoma, quantificabile e controllabile, sia il principale problema nazionale e globale. Concentrandomi sulla relazione tra i demografi e il passato, ho esaminato i vantaggi e le distorsioni dalla riduzione della storia umana a storia naturale delle società. La “demografia pura”, sia essa concepita come una ristretta combinazione di variabili o come zoologia umana (un approccio particolarmente in voga in Italia, si pensi a Corrado Gini o a Livio Livi), è anche un mezzo per imporre una visione del mondo sotto una patina di neutralità.
Come in molti altri campi del sapere lo scontro fra cultori del dato come “fatto” e loro critici, in nome dell’impossibilità della conoscenza o dell’uso a fini di potere, ha segnato gli studi demografici. Se ne può uscire?
L’alternativa binaria tra positivismo scientista e relativismo scettico è assurda. Sin dalle origini seicentesche degli studi di popolazione, la maggior parte degli studiosi è consapevole dei limiti dei dati e dei metodi. Non è così per gli specialisti di “big data” e algoritmi, che si rifugiano dietro la sovrabbondanza di dati digitali per evitare di metterne in discussione la produzione e l’analisi. Dobbiamo sempre ricordare che uno scienziato non è un oracolo, ma un “lavoratore della dimostrazione”, il cui operato e le cui argomentazioni possono essere discusse, proprio perché il suo approccio deve essere trasparente e prestarsi alla verifica.
Quanto ai legami tra statistica e potere, eviterei le affermazioni troppo generiche. La storia delle scienze della popolazione ha molto a che fare con la storia della “tecnocrazia” e molti dei loro più illustri rappresentanti hanno lavorato come consulenti del principe o hanno avuto essi stessi responsabilità istituzionali. Tuttavia ogni caso ha le sue specificità e solo studi approfonditi (come quelli condotti in Italia sui legami tra statistica, scienze demografiche e fascismo) ci consentiranno di precisare il rapporto tra ricerca e azione e di stabilire il grado di autonomia effettivamente goduto dagli scienziati. Ciò impone di non ridurre il ragionamento scientifico ai suoi fini utilitaristici e di sospendere quel che pensiamo come cittadini del presente, per sforzarci di cogliere come progredisce la conoscenza e attraverso quali pratiche: questo è il prezzo da pagare per poter poi criticarla a ragion veduta.
Il ruolo delle donne nelle dinamiche demografiche è stato a lungo misconosciuto. Negli ultimi anni, basti pensare alle polemiche attorno alle nascite (sul loro crollo nei Paesi più ricchi o sulle legislazioni in tema di aborto e fecondazione assistita o per terzi), sta cambiando qualcosa?
È in corso un dibattito tra chi ritiene la scienza demografica intrinsecamente conservatrice e chi coglie negli ultimi decenni una svolta critica nella disciplina. Trovo difficile sostenere la tesi che nulla sia cambiato, basti osservare l’evoluzione delle principali riviste specializzate. Dal dominio di temi natalisti o malthusiani, familisti e anti-migratori si è passati a una certa attenzione alla disuguaglianza di genere e alle vite delle donne. La ricerca femminista ha portato a un cambiamento fondamentale nella comprensione di fenomeni come la “transizione demografica” e le trasformazioni familiari.
Lei è uno studioso di storia e il suo più recente libro copre un arco lunghissimo, dal Cinquecento ai giorni nostri. Quale è stato e quale può ancora essere il ruolo della conoscenza del passato negli studi sulle dinamiche delle popolazioni?
Fin dal XIX secolo le serie statistiche retrospettive a lungo termine sono state considerate una chiave per comprendere il presente. A metà del XX secolo, con ricercatori come Luigi Cavalli-Sforza e Louis Henry, gli archivi sono diventati una via di accesso ai processi demografici. Ancor oggi i demografi storici restano legati all’idea “presentista” che il passato sia una risorsa. La mia prospettiva è diversa: mi interessa la “razionalizzazione”, sia dei comportamenti demografici che del modo in cui vengono analizzati e indirizzati dai saperi e dalle tecniche di governo.
Fabrice Cahen è ricercatore all’Institut national d’études démographiques (INED), una delle più importanti istituzioni di ricerca francesi, fondato nel 1945 e che ha ora sede ad Aubervilliers, nella banlieue parigina. Ha pubblicato Le Nombre des hommes. La mesure de la population et ses enjeux (XVIe-XXIe siècle), Paris, Garnier 2022 (che per chiarezza e ricchezza meriterebbe una traduzione) e una ricerca sull’anti-abortismo in Francia, Gouverner les moeurs. La lutte contre l’avortement en France, 1890-1950, Paris, INED 2016 (accessibile online https://books.openedition.org/ined/5663; una sua recente intervista in materia è reperibile, con la trascrizione, qui https://entretiens.ina.fr/entretien/604/entretien-avec-fabrice-cahen). Nell’aprile del 2020, in piena pandemia, il sito Treccani ha tradotto una sua splendida “lettera a un pangolino” .