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La Comune di Ferrara | Femminile, Plurale, Partecipata

27 Luglio 2025

Popolazione, una parola dai confini labili

Michele Nani

I recenti interventi governativi a revisione del “Piano strategico nazionale delle aree interne” hanno riproposto il problema dello spopolamento di vaste aree del nostro Paese. Il nuovo approccio, dai contorni fatalistici (vedi l’intervento di Filippo Barbera e altri su queste pagine il 15 luglio), si differenzia da quelli del passato, ma anche dalla percezione di altre dinamiche di popolazione (la “denatalità”, l’emigrazione all’estero degli italiani e, soprattutto, l’immigrazione straniera), che invece sollecitano interventi. Di “popolazione” fra scienza e politica abbiamo discusso con Fabrice Cahen, storico francese in forza all’INED.

Durante la pandemia siamo stati quotidianamente informati con cifre, grafici e carte sulla mortalità e i dati sono stati un vero campo di battaglia. Perché è così importante quantificare la popolazione?

Credo che la crisi del Covid abbia testimoniato la profonda ambivalenza del rapporto delle nostre società con i dati. La “fiducia nei numeri” (Ted Porter) convive con atteggiamenti di diffidenza nei loro confronti. La pandemia ha visto forme di strumentalizzazione politica del numero dei contagi e dei decessi: effettivamente i governi sono stati tentati dalla drammatizzazione dei dati disponibili per ottenere l’accettazione della restrizione delle libertà, mentre alcuni media bombardavano l’opinione pubblica con cifre diffuse senza la minima valutazione critica. Tuttavia le misure restrittive hanno fornito l’occasione per una riflessione collettiva sul significato della solidarietà, sul ruolo delle strutture sanitarie e sulla consapevolezza del rilievo degli operatori “in prima linea” e, analogamente, la dilagante produzione di cifre ha promosso forme di “pedagogia” sulle operazioni statistiche: giornalisti e divulgatori si sono sforzati di spiegare come sono stati raccolti i dati, come sono stati costruiti gli indicatori, come sono state modellate le serie.

Mentre lavoravo a una storia della misurazione del “numero degli uomini”, ho potuto notare in tempo reale gli estremi a cui portano le posizioni di “sfiducia nei numeri”, allora associate a una messa in discussione delle politiche sanitarie pubbliche e dello Stato sociale, se non addirittura dello Stato in quanto tale. Prevedibilmente, questa ondata di scetticismo tossico, nel quale convergevano posizioni libertarie, pseudo-libertarie e neoliberali (ma anche forme di ultraconservatorismo religioso), è stata carburante per l’estrema destra.

L’esperienza del Covid ha rafforzato la mia sensazione che né i feticisti del “fatto statistico”, né coloro che, invece, sulla base di una vulgata ispirata molto sommariamente a Michel Foucault o ad Alain Desrosières, inveiscono contro qualsiasi forma di “governo dei numeri”, siano davvero in grado di spiegarci cosa sono realmente le cifre in questione, cosa ne facciamo e perché sono diventate indispensabili nella gestione delle popolazioni. Mi viene spesso in mente la celebre frase di Marc Bloch: “Robespierristi, anti-robespierristi, vi supplichiamo: per pietà, diteci, semplicemente chi fu Robespierre”.

Siamo tutti convinti di saperlo, ma alla fine che cos’è la “popolazione”? Quali rischi comporta trattarla come un tutto organico?

Esattamente: siamo “convinti di saperlo” e in questa discrepanza tra l’apparente familiarità del termine e la labilità del concetto risiedono i fraintendimenti più pericolosi. Da cui discende l’interesse di farne una storia intellettuale, nel solco di Jean-Claude Perrot.

Il concetto di “popolazione” è stato oggetto di diverse re-invenzioni nel corso del tempo. A partire dal XVII secolo le discipline che hanno costituito la popolazione come oggetto (aritmetica politica, economia politica, demografia, epidemiologia) sono state caratterizzate dalla preoccupazione di cogliere i fenomeni nella loro dimensione collettiva e statistica. Nel XIX secolo queste discipline si sono distinte dalle scienze “morali” e “sociali” concentrandosi sui parametri materiali della vita umana (natalità, mortalità, migrazione). Tuttavia i loro quadri teorici non erano unificati: affermazioni come “l’Italia ha una popolazione di x milioni”, “la popolazione tende a essere proporzionata alle risorse disponibili” o “la popolazione nazionale deve essere sana e vigorosa” non presuppongono esattamente lo stesso contenuto.

Al centro del mio ultimo libro ci sono i modi in cui la popolazione è diventata sia un’entità autonoma, quantificabile e controllabile, sia il principale problema nazionale e globale. Concentrandomi sulla relazione tra i demografi e il passato, ho esaminato i vantaggi e le distorsioni dalla riduzione della storia umana a storia naturale delle società. La “demografia pura”, sia essa concepita come una ristretta combinazione di variabili o come zoologia umana (un approccio particolarmente in voga in Italia, si pensi a Corrado Gini o a Livio Livi), è anche un mezzo per imporre una visione del mondo sotto una patina di neutralità.

Come in molti altri campi del sapere lo scontro fra cultori del dato come “fatto” e loro critici, in nome dell’impossibilità della conoscenza o dell’uso a fini di potere, ha segnato gli studi demografici. Se ne può uscire?

L’alternativa binaria tra positivismo scientista e relativismo scettico è assurda. Sin dalle origini seicentesche degli studi di popolazione, la maggior parte degli studiosi è consapevole dei limiti dei dati e dei metodi. Non è così per gli specialisti di “big data” e algoritmi, che si rifugiano dietro la sovrabbondanza di dati digitali per evitare di metterne in discussione la produzione e l’analisi. Dobbiamo sempre ricordare che uno scienziato non è un oracolo, ma un “lavoratore della dimostrazione”, il cui operato e le cui argomentazioni possono essere discusse, proprio perché il suo approccio deve essere trasparente e prestarsi alla verifica.

Quanto ai legami tra statistica e potere, eviterei le affermazioni troppo generiche. La storia delle scienze della popolazione ha molto a che fare con la storia della “tecnocrazia” e molti dei loro più illustri rappresentanti hanno lavorato come consulenti del principe o hanno avuto essi stessi responsabilità istituzionali. Tuttavia ogni caso ha le sue specificità e solo studi approfonditi (come quelli condotti in Italia sui legami tra statistica, scienze demografiche e fascismo) ci consentiranno di precisare il rapporto tra ricerca e azione e di stabilire il grado di autonomia effettivamente goduto dagli scienziati. Ciò impone di non ridurre il ragionamento scientifico ai suoi fini utilitaristici e di sospendere quel che pensiamo come cittadini del presente, per sforzarci di cogliere come progredisce la conoscenza e attraverso quali pratiche: questo è il prezzo da pagare per poter poi criticarla a ragion veduta.

Il ruolo delle donne nelle dinamiche demografiche è stato a lungo misconosciuto. Negli ultimi anni, basti pensare alle polemiche attorno alle nascite (sul loro crollo nei Paesi più ricchi o sulle legislazioni in tema di aborto e fecondazione assistita o per terzi), sta cambiando qualcosa?

È in corso un dibattito tra chi ritiene la scienza demografica intrinsecamente conservatrice e chi coglie negli ultimi decenni una svolta critica nella disciplina. Trovo difficile sostenere la tesi che nulla sia cambiato, basti osservare l’evoluzione delle principali riviste specializzate. Dal dominio di temi natalisti o malthusiani, familisti e anti-migratori si è passati a una certa attenzione alla disuguaglianza di genere e alle vite delle donne. La ricerca femminista ha portato a un cambiamento fondamentale nella comprensione di fenomeni come la “transizione demografica” e le trasformazioni familiari.

Lei è uno studioso di storia e il suo più recente libro copre un arco lunghissimo, dal Cinquecento ai giorni nostri. Quale è stato e quale può ancora essere il ruolo della conoscenza del passato negli studi sulle dinamiche delle popolazioni?

Fin dal XIX secolo le serie statistiche retrospettive a lungo termine sono state considerate una chiave per comprendere il presente. A metà del XX secolo, con ricercatori come Luigi Cavalli-Sforza e Louis Henry, gli archivi sono diventati una via di accesso ai processi demografici. Ancor oggi i demografi storici restano legati all’idea “presentista” che il passato sia una risorsa. La mia prospettiva è diversa: mi interessa la “razionalizzazione”, sia dei comportamenti demografici che del modo in cui vengono analizzati e indirizzati dai saperi e dalle tecniche di governo.

Fabrice Cahen è ricercatore all’Institut national d’études démographiques (INED), una delle più importanti istituzioni di ricerca francesi, fondato nel 1945 e che ha ora sede ad Aubervilliers, nella banlieue parigina. Ha pubblicato Le Nombre des hommes. La mesure de la population et ses enjeux (XVIe-XXIe siècle), Paris, Garnier 2022 (che per chiarezza e ricchezza meriterebbe una traduzione) e una ricerca sull’anti-abortismo in Francia, Gouverner les moeurs. La lutte contre l’avortement en France, 1890-1950, Paris, INED 2016 (accessibile online https://books.openedition.org/ined/5663; una sua recente intervista in materia è reperibile, con la trascrizione, qui https://entretiens.ina.fr/entretien/604/entretien-avec-fabrice-cahen). Nell’aprile del 2020, in piena pandemia, il sito Treccani ha tradotto una sua splendida “lettera a un pangolino” .