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La Comune di Ferrara | Femminile, Plurale, Partecipata

Inviato il:

7 Ottobre 2025

Andrea Pieragnoli

Afghanistan, Ucraina, Palestina: il filo rosso (di sangue) che l’Italia insegue per ricostruire.

In un ecosistema naturale ogni perturbazione tende ad un riequilibrio. Che sia un battito di farfalla che può generare un tornado a migliaia di chilometri di distanza o un terremoto che sconvolge e genera uno tsunami, il risultato è sempre un riequilibrio delle forze in gioco. Tensione e risoluzione che si perpetuano per creare evoluzione dei sistemi in una darwiniana ricerca dell’adattamento.
A quanto pare l’indole umana preferisce distruggere per ricostruire, con enorme dispendio di vite, energia, soldi ed equilibrio della stessa Natura.
Sembra dunque che in tale logica “essere dalla parte giusta” delle guerre sia la chiave per portare benessere al proprio popolo o alla propria economia.
Ma questa posizione a sostegno di guerre e invasioni, a cui spesso l’Italia ambisce o partecipa è veramente la strada migliore per l’evoluzione della nostra società e, in fin dei conti, dell’uomo?

Sostenere un conflitto significa immettere l’apparato politico ed economico in una dinamica di breve termine: contratti per la ricostruzione, aumento di commesse in settori strategici, flussi umanitari e pressioni diplomatiche che ridefiniscono alleanze. Ma a quale prezzo? Le devastazioni lasciano ferite strutturali — istituzionali, culturali, psicologiche — che non si sanano con appalti o aiuti spot. Inoltre, il modello “distruggi e poi ricostruisci” normalizza la violenza come strumento legittimo di politica estera, erodendo norme internazionali e riducendo lo spazio per la prevenzione, la diplomazia e la gestione non violenta delle crisi.

L’Italia, inserita in reti multilaterali e relazioni economiche complesse, rischia così di confondere interessi di breve periodo con strategie di lungo periodo che promuovano sicurezza reale, sviluppo sostenibile e coesione sociale.
Prendere le parti della guerra come metodo per “ricostruire” (a pochi mesi dal conflitto già si parlava di partecipazione alla ricostruzione dell’Ucraina) non è la strada migliore per l’evoluzione della nostra società. È una scelta che premia guadagni immediati e ricollocazioni geopolitiche, ma che sacrifica principi, vite e la possibilità di un progresso umano fondato sulla prevenzione, sulla cooperazione e sulla riduzione delle disuguaglianze. Se vogliamo un futuro più stabile e giusto, l’Italia dovrebbe investire molto di più in diplomazia preventiva, resilienza civile, cooperazione internazionale e modelli economici che non si nutrono della distruzione.

Il caso della Global Sumud Flotilla

Un esempio recente che mette alla prova la logica “distruggere per ricostruire” è l’intervento della Global Sumud Flotilla. Decine di imbarcazioni partite da porti europei hanno tentato di portare aiuti a Gaza, sfidando il blocco navale israeliano e attirando l’attenzione internazionale.

L’Italia, come altri Stati, ha garantito una protezione limitata ai propri cittadini a bordo, inviando una fregata fino ai margini della cosiddetta “zona rossa”, senza però entrare direttamente nell’area di conflitto.
L’operazione, pur con tutti i rischi e i limiti che comporta — dalle manovre di intimidazione della marina israeliana fino alle accuse di “provocazione” da parte delle autorità — rappresenta un rovesciamento della dinamica tradizionale: non attendere la distruzione per avviare ricostruzione e contratti, ma tentare un’azione preventiva, simbolica e civile, che mette in luce le sofferenze umane e rivendica il rispetto del diritto internazionale.

In questo quadro, il governo italiano si è trovato in difficoltà: condannare duramente l’iniziativa avrebbe significato schierarsi apertamente contro un segmento importante dell’opinione pubblica interna, molto sensibile al dramma palestinese; non condannarla, invece, avrebbe rischiato di incrinare i rapporti con Israele e con gli Stati Uniti, soprattutto nella prospettiva di un ritorno di Donald Trump e del consolidamento dell’asse con Netanyahu.
Le ambiguità della posizione italiana sembrano dunque legate a una tacita volontà di preservare margini di partecipazione futura alla ricostruzione della Palestina, più che a una valutazione immediata della legittimità o meno dell’azione civile. In altre parole, l’Italia cerca di muoversi in equilibrio: mostrare fermezza contro le violazioni del blocco navale per mantenere credibilità verso gli alleati, ma al contempo non isolarsi dal sentimento popolare interno. Un silenzio “operativo” che, in prospettiva, permette di restare in linea con gli interessi strategici di Trump e Netanyahu, laddove la ricostruzione non venga intesa come riconciliazione, bensì come un nuovo terreno di influenza economica e geopolitica.

“La vera evoluzione è rigenerare senza distruggere: co-evolvere con la natura, non contro di essa.”


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